“Non mi interessa l’uomo! Mi interessa l’eccesso dell’uomo come arte. Mi interessa l’eccesso dell’arte”
Esponente fra i più apprezzati, controversi, innovativi e radicali del grande teatro italiano, Carmelo Bene è ancora oggi – a tredici anni dalla morte – un genio, un punto di riferimento imprescindibile per chiunque si interessi di attorialità, testo e relazione dell’artista con l’opera d’arte nel contesto teatrale.
La sua carriera è segnata dall’uso caleidoscopico del linguaggio scenico e dalla volontà di decostruire il teatro. La straordinaria complessità dei procedimenti concettuali che si celano dietro alle sue scelte è tale, nell’ottica di Carmelo Bene, da richiedere una disarticolazione della terminologia che rende il suo punto di vista quasi incomprensibile, inafferrabile e criptico. Probabilmente, però, questo nascondersi dietro a complicatissimi ragionamenti semantici era – con buona pace di tutti coloro che ci si scontravano faccia a faccia, come nelle sue memorabili apparizioni in televisione – l’unico modo per dare un’idea di che cosa sia il Teatro: Teatro è tutto ciò che non si comprende. Lo spettatore deve essere in balia del Teatro.
È qui importante definire due tipi di teatro, attorno ai quali ruota l’analisi di Carmelo Bene. Il primo non è teatro, pur essendolo: è praticamente definito dall’attore servile, incapace di rivestire il suo ruolo. Il secondo è il Grande Teatro ed è – paradossalmente – un’arte senza spettacolo, un’utopia, un non-luogo in cui domina la perdita del sé, l’aldilà del desiderio e dell’essere. Il ragionamento beniano sul teatro è talmente estremo ed eccessivo da negare praticamente qualsiasi possibilità di reale comprensione del teatro stesso, che secondo lui è intestimoniabile, non per una inadeguatezza di quest’arte ma per un’impossibilità umana di farlo.
Chi non-agisce – sempre per restare all’interno della terminologia di Bene – nel Grande Teatro è la cosiddetta macchina attoriale. Si tratta del grande attore che, liberandosi dalla tecnica, smette di recitare il testo e diviene il testo stesso. “La macchina attoriale non fa il Faust. È il Faust. Ed è una immensa fatica”, diceva a proposito Carmelo Bene.
Si tratta di qualcosa di molto più radicale degli approcci di altri grandi pensatori del teatro, come Stanislavskij con il suo metodo. Per Bene, l’attore deve diventare amplificazione del testo, deve disarticolare il proprio corpo – a cui nega il possesso – e la propria volontà, uscire da sé stesso, smettere di essere e concepirsi. L’idea di amplificazione è determinante: non si tratta di amplificazione acustica, di un microfono, ma un’estensione potenziale dell’intero apparato fonatorio che viene vincolato al potere del testo, cioè della parola.
Ci si chiede ancora se è davvero possibile e sensato comprendere la visione che Carmelo Bene ha del Teatro. Probabilmente, se oggi fosse vivo, contesterebbe ogni singola parola detta sul suo conto, comprese quelle che state leggendo, arrivando ancora una volta a negare sé stesso e gli altri in favore della pura arte.